La analitica trascendentale

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Autore: Martino Sacchi
Fonte: Il filo di Arianna della filosofia, vol. II, Ledizioni

Le categorie
La conoscenza esige una connessione fra i dati dell’intuizione sensibile, ossia la loro unificazione. Ma questa connessione non può consistere in un’associazione delle percezioni operata dal soggetto empirico, individuale, singolo: essa deve infatti avere carattere oggettivo, cioè valere necessariamente per tutti. Questo impone un passaggio ulteriore, che viene compiuto dalla conoscenza intellettiva: la sua analisi spetta alla logica trascendentale, divisa in analitica trascendentale e dialettica trascendentale. L’analitica trascendentale è la parte della Critica della Ragion Pura che si occupa di giustificare come l’intelletto possa unificare in modo necessario e universale l’esperienza che gli viene presentata dalla sensibilità, trattando gli elementi della conoscenza pura dell’intelletto e dei principi senza i quali nessun oggetto può in alcun modo essere pensato.

Se nella sfera della sensibilità avevamo a che fare con intuizioni, ora siamo di fronte ai concetti puri dell’intelletto. Essi non sono dei «contenuti mentali», magari astratti, ma funzioni, ossia la capacità dell’intelletto di ordinare e unificare sotto una rappresentazione comune, secondo varie modalità, le rappresentazioni fornite dalla sfera empirica. I concetti puri, chiamati da Kant anche categorie, non sono altro quindi che le regole universali sotto le quali avviene la conoscenza dell’esperienza dato che sono, nello stesso tempo, le condizioni di possibilità del costituirsi dell’esperienza stessa.

La parola «categoria» è ripresa da Aristotele, ma assume un significato completamente diverso: non indica più le supreme divisioni nell’essere (ambito ontologico) ma, come abbiamo già detto, le condizioni di possibilità del costituirsi dell’esperienza (ambito gnoseologico).

Le rappresentazioni vengono fornite all’intelletto dalla sensibilità che, a livello di estetica trascendentale, le ha già unificate nello spazio e nel tempo. L’intelletto attraverso le categorie svolge l’attività del pensare. Pensare significa essenzialmente giudicare, ossia unire le rappresentazioni mentali in una proposizione o enunciato, che assume la forma generalissima: «S è P» dove «S» corrisponde al soggetto della proposizione, «P» al predicato. Senza l’operazione del giudizio non c’è pensiero. I giudizi sono divisi tradizionalmente in giudizi analitici o a priori e giudizi sintetici o a posteriori.

I giudizi analitici si limitano ad analizzare il contenuto del soggetto, esplicitando nel predicato quello che era già contenuto nel soggetto. L’esempio kantiano è il seguente: «Tutti i corpi sono estesi». Questo è un giudizio analitico perché la nozione di «estensione» era già compresa in quella di «corpo», tanto che non è possibile pensare nessun corpo che non sia anche esteso. Negare che un corpo sia esteso significa cadere in contraddizione. I giudizi analitici sono quindi certi (non è possibile sbagliarsi) ma non estendono in realtà la nostra conoscenza, dato che il predicato era già contenuto nel soggetto.

I giudizi sintetici o a posteriori accrescono invece la nostra conoscenza, perché il predicato non è già contenuto nel soggetto. L’esempio kantiano è: «Tutti i corpi sono pesanti». La pesantezza non è una caratteristica essenziale dei corpi (nello spazio per esempio i corpi, che pure mantengono la loro massa, non hanno peso) e quindi questo predicato aggiunge qualcosa a quello che sapevo prima. Tuttavia questa conoscenza non è necessaria, proprio perché a differenza dei giudizi analitici possono essere negati senza contraddizione. Né i giudizi sintetici né quelli analitici possono fondare la scienza newtoniana, che invece ha proprio la caratteristica di poter ampliare i propri contenuti in modo necessario e universale.

Dato che la scienza esiste e funziona, è necessario ammettere la presenza di un terzo tipo di giudizi, che Kant chiama «sintetici a priori», ossia giudizi necessari e universali ma che ampliano la conoscenza umana, aggiungendo nel predicato qualcosa che non era contenuto nel soggetto. L’esempio migliore è la stessa legge fondamentale della meccanica, la legge della gravitazione universale: «Due masse lasciate libere di muoversi si attraggono reciprocamente». Questa proposizione è universalmente vera: ogni massa dell’universo attrae ogni altra massa. Tuttavia il concetto di «attrazione» non si può ricavare per semplice analisi del concetto di massa. Il principio fondamentale della meccanica quindi unisce le caratteristiche di un giudizio sintetico (fa aumentare le nostre conoscenze rispetto al semplice concetto di massa) ma insieme è a priori (cioè sempre universalmente valido). I giudizi sintetici a priori sono perciò il fondamento della scienza.

La deduzione delle categorie
Se le categorie sono i modi in cui pensiamo, unificando l’esperienza, sorge il problema di catalogarle e di inventariarle. Kant stabilisce che sono dodici plasmando la sua convinzione sulla logica del tempo. Nei manuali di logica venivano distinti dodici tipi di giudizi diversi: se ne ricava che devono esistere altrettanti modi di unire la rappresentazioni, ossia di pensare: quindi dodici devono essere anche le categorie. Kant chiama questa operazione deduzione metafisica, dando alla parola il significato di una giustificazione dell’uso che parta dalla pensiero in se stesso.

Molto più importante è la deduzione che Kant chiama trascendentale. Si tratta della giustificazione trascendentale dell’uso delle categorie, ciò che consente di spiegare perché le categorie esistono e servono per le condizioni di possibilità del costituirsi dell’esperienza. La risposta kantiana è che le categorie funzionano perché alla loro base sta una funzione trascendentale fondamentale, che Kant chiama Ich denke, ovvero “io penso” in tedesco. L’intera costituzione dell’esperienza ha il suo centro e la sua sorgente in questo principio di unificazione. Siamo di fronte ad un passaggio di fondamentale importanza, sul quale si gioca il tentativo kantiano di indicare un’alternativa allo scetticismo e quindi di fondare la possibilità di costruire un sapere scientifico e di riferirsi ad un mondo di esperienza comune. L’Ich denke è una funzione, un’attività del soggetto conoscente: essa esprime la consapevolezza che una determinata rappresentazione appartenga alla esperienza del soggetto conoscente. È una sorta di «rappresentazione vuota» che accompagna tutte le altre rappresentazioni qualificandole come appartenenti al soggetto, ed è ciò che garantisce che esse appartengono ad un’unità di esperienza, senza la quale l’esperienza stessa non esisterebbe. È come se fosse una cornice priva di contenuti propri, ma che fa si che l’esperienza possa esistere.

Lo schematismo

Un grave ostacolo appare adesso nel sistema kantiano. Il filosofo prussiano era partito dall’assunto che sensibilità (che fornisce i contenuti empirici) e razionalità (che fornisce le forme pure) siano completamente diverse. Ma se è così, come è possibile che interagiscano tra loro? Occorre in effetti introdurre una facoltà intermedia: l’immaginazione, che esprime la capacità del soggetto di rappresentare un oggetto nell’intuizione anche senza la sua presenza. Essa è in parte attiva (produce dei contenuti in modo spontaneo) e in parte passiva (è legata alla sensibilità): per questo può fungere da ponte intermedio tra sensibilità e razionalità (tra intuizioni e categorie). Esistono tre forme di schematismo:

  • matematico
  • empirico
  • trascendentale


Il primo è l’immagine che fornisce lo schema per i numeri (almeno i numeri naturali): cinque puntini sono lo «schema» del numero 5. Il secondo serve a fornire la regola per la costituzione delle immagini dei singoli oggetti. Lo schema kantiano non ci dà l’immagine completa, ma le regole per costruire, ciascuno per conto proprio, una certa immagine di un oggetto. Come osserva lo storico Ernst Cassirer: «lo schema non è un fantasma sbiadito di un oggetto empirico e concreto, ma per così dire l’archetipo e il modello per gli oggetti possibili dell’esperienza». Esso contiene le istruzioni per la produzione delle rappresentazioni mentali che ciscuno di noi può creare nella propria immaginazione. Prendiamo l’esempio di un cane: io non posso formarmi una sola immagine mentale per descrivere tutti i cani possibili, perché ciò è impossibile; posso però di volta in volta seguire delle indicazioni (lo schema appunto) per formare la mia personale immagine di un cane (ossia quella di un animale con quattro zampe, con la coda, col pelo, una testa…). Viene così risolta secondo Kant l’annosa disputa degli universali medievali Gli schemi trascendentali però sono molto più importanti, perché sono quelle funzioni che servono a rendere possibile l’applicazione delle categorie ai dati della sensibilità. Lo schema trascendentale fondamentale è il tempo: solo il tempo infatti ha a che fare sia con la sensibilità (e quindi la passività), sia con l’«attività» che caratterizza il soggetto, in quanto è anche «puro». Gli schemi di ogni singola categoria non sono altro che le stesse categorie colte in azione nel tempo. È attraverso il tempo, quindi, che si opera la sintesi fra concetto e fenomeno intuito: viceversa, qualsiasi esperienza abbiamo, essa è nel tempo.

La risposta a Hume
A questo punto Kant ritiene di essere in grado di risolvere le obiezioni di Hume alla nozione di sostanza e alla nozione di causalità. Fra le categorie del gruppo della relazione, lo schema della sostanza esprime «la permanenza del reale nel tempo», mentre lo schema della casualità esprime la «successione del molteplice, in quanto soggetto ad una regola»: il che vuol dire che è possibile applicare la categoria di casualità (concetto puro) ai fenomeni (intuizioni) solo attraverso lo schema di una successione regolare e irreversibile di eventi nel tempo. Il principio che guida gli schemi di queste categorie è quello della analogia, ossia quel procedimento matematico per cui dati tre termini è possibile ricavare un quarto termine, ossia avere una previsione di quello che accadrà. Le categorie del gruppo della relazione ci dicono che affinché possa esistere l’esperienza ci deve essere una concatenazione necessaria di rappresentazioni. L’esempio kantiano è una barca che scende lungo il fiume trascinata dalla corrente: noi non possiamo alterare la sequenza delle rappresentazioni e, ad esempio, vedere la barca prima alla fine del suo tragitto, a valle, e poi mentre sta partendo, a monte. Allo stesso modo quando lasciamo andare un grave le rappresentazioni di esso che cade non possono esserci date a caso, ma sempre organizzate secondo una sequenza necessaria e universale. I due schemi della causalità e della sostanza servono per giustificare i principi di Newton sulla permanenza delle sostanze e sulla relazione causa e effetto. Quando io considero un oggetto nella categoria della sostanza, la sostanza permane. Quando lo considero nella categoria della causalità, non può che inserirsi in una concatenazione infinita tra fenomeni, ciascuno dei quali è effetto di un fenomeno precedente e causa di quello successivo. Gli oggetti possono esistere nell’esperienza solo se si presentano in una forma di continuità e di successione che non può essere alterata.

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